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Giulio Cesare racconta che durante la guerra gallica, in
cui egli stesso fu comandante supremo e di cui egli ne descrisse in modo
sublime le fasi salienti nel “De bello gallico”, l’esercito romano perse
tragicamente una legione. Già perdere delle coorti, che erano frazioni di una
legione, era di per sé un fatto grave, figuriamoci cosa poteva rappresentare
per un comandante perdere un’intera legione: un evento funesto.
L’ottava
legione, che si era formata da poco, fu
mandata a porre il campo invernale
presso il popolo gallico degli Eburoni il cui governatore si chiamava
Ambiorige. Poiché questa legione era più numerosa delle altre (erano infatti state
aggiunte delle coorti in più, quasi a formare due legioni), a capo di essa
furono posti due generali: Quinto Tiburio Sabino e Lucio Aurunculeio Cotta
(quest’ultimo lontano parente di Cesare). Ora un bel giorno Ambiorige, dopo
aver fomentato una rivolta contro la presenza del campo romano sul suo
territorio, chiese ai due comandanti un’udienza. L’udienza fu concessa ed egli,
con fare ingannevole, fece credere ai messi inviati dai due generali, che tutta
la Gallia si stava sollevando e che lui, per ricambiare i numerosi favori
ottenuti in passato da Cesare, consigliava ai comandanti romani di abbandonare
il campo e di raggiungere la legione romana più vicina alla loro, che si
trovava a circa cinquanta miglia e che
era comandata da Quinto Cicerone, fratello minore del più noto Marco Tullio. Anzi, per fornire prova
della sua amicizia con i romani, si offriva egli stesso con le sue truppe per
scortare la legione fino ai confini della regione da lui controllata.
La sera stessa i comandanti
discussero la proposta di Ambiorige e mentre Sabino credeva alle parole del
governatore gallico e voleva abbandonare con l’intera legione il campo, Cotta,
al contrario, non credeva all’Eburone e voleva rimanere asserragliato
all’interno del campo, considerando che le provviste erano abbondanti e che i
soldati romani erano maestri sia nel fare sia nel subire gli assedi. Si scatenò
un violento alterco fra i due comandanti, ognuno sostenuto da una parte degli
ufficiali e dei centurioni a loro più vicini, in cui volarono parole pesanti e
si fu ad un passo che il tutto degenerasse in una zuffa. Dopo parecchie ore di
discussione e a notte ormai inoltrata, Cotta cedette e si lasciò persuadere a
adottare la linea di comportamento caldeggiata da Sabino. Al mattino seguente
l’intera legione abbandonò il campo e si mise in marcia per raggiungere la
legione di Cicerone. Caddero in una vile imboscata e furono trucidati quasi
tutti, compresi i due generali romani. I pochissimi superstiti raccontarono poi
a Cesare dell’accaduto ed egli ne rimase profondamente turbato.
Chi dei
due, tra Sabino e Cotta sbagliò e chi era nel giusto? Meglio, quale delle due
analisi adottare per affrontare al meglio le scelte strategiche? Tra
Sabino e Cotta si può affermare: ciascuno aveva ragione e ciascuno aveva torto.
La loro grave mancanza non consistette nella scelta effettuata, ma come la
effettuarono: in apparente accordo, sostanzialmente in disaccordo. Gli ufficiali e la truppa uscirono già demoralizzati e disorientati dal
comportamento tenuto dai loro comandanti e questo minò il loro spirito di
abnegazione e la loro fiducia nella salvezza. Come insegnò poi Cesare in
numerose altre battaglie da lui condotte, l’unità d’intenti e lo spirito di
corpo è la prima regola per il mantenimento della fiducia e nella riuscita
della vittoria.
Morale: le scelte sono importanti, ma l'unità d'intenti spesso ne determina gli esiti.
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