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lunedì 20 maggio 2013

Muppets Show Theme


               

Briacabanda feat Luca Casadei Band


Muppets song - very good

Marcia Funebre per una Marionetta (Charles Gounod 1818-1893)

    





http://www.youtube.com/watch?v=bHSUbsgweEA

Lugano's Mandolin Orchestra - Ticino (Svizzera) - arrangiamento di Rodolfo Borsani.

Perfetta ed esilarante. Tutti bravi.

Il Mito dell'Auto Italiana

                            File:Logo della Volkswagen.svg     
Immagine 14 Automobili


Quando presi la patente io, un po' di anni fa, il marchio dell'automobile più venduto in Italia era Fiat. La casa automobilistica sembrava l'emblema della nostra industria, non solo meccanica, ma l'"Impresa" per antonomasia. Le auto di grossa cilindrata erano rare e, già a quei tempi, non tutte italiane. Per le auto considerate di lusso tra i marchi italiani, non ancora accorpati nel gruppo Fiat, si distingueva il marchio Lancia. Oggi il gruppo Fiat rimane in testa tra le auto più vendute in Italia con una percentuale totale di vendita, assommando i vari marchi, che si attesta a quasi il 65% per l'anno 2012. Il gruppo Volkswagen, storico antagonista, si attesta intorno al 14%. Vista così la situazione non sembrerebbe poi male. Ma è sui grandi numeri che il marchio Fiat praticamene sparisce. Mi riferisco al mercato europeo nel quale tra i primi 10 posti nessun marchio del gruppo Fiat appare in classifica, mentre il gruppo tedesco è padrone assoluto. Se in Italia la Fiat può vantarsi ancora di primeggiare, in Europa, rispetto alle altre case automobilistiche, il gruppo arranca visibilmente. E' un momento difficile per tutti, vista la profonda e prolungata crisi economica, e non bisogna scordarsi che a metà del decennio scorso la Fiat ha rischiato di fallire o, nella migliore delle ipotesi, di essere assorbita da qualche altro gruppo automobilistico. Stranamente si è salvata, al contrario di altre aziende, grazie ad una operazione finanziaria di Put (diritto a vendere) che la Fiat si era riservata negli accordi che aveva fatto a suo tempo con la General Motors. Successivamente l'avvento di Luca di Montezemolo, che ha chiamato come Amministratore Delegato Marchionne, ha risollevato le sorti, ma oggi lo scenario è completamente cambiato. Marchionne ha acquistato la Chrysler e il mercato di rifermento è diventato quello statunitense. Si è poi innescato un meccanismo di sfiducia tra la governance e la forza lavoro con scontri molto duri soprattutto tra una parte (minoritaria) del sindacato e l'amministratore delegato. Insomma, nonostante gli annunci di rilancio, la ristrutturazione aziendale e il referendum tra i lavoratori per accettare le richieste dell'azionariato, la Fiat permane in uno stato di crisi. Così, sembra, amministratore delegato ed azionisti vorrebbero portare la sede in America a Detroit per seguire  più da vicino l'azienda Chrysler e abbandonare al suo definitivo declino gli stabilimenti Fiat Italiani.
Senza entrare nel merito delle responsabilità e delle ragioni che sicuramente esistono da entrambe le parti, azionisti rappresentati dall'amministratore delegato da una parte e forza lavoro rappresentata dai sindacati dal'altra, si potrebbe fare una proposta molto provocatoria, ma che ha, forse, qualche fondamento.
La forza della Fiat è sicuramente rappresentata dai modelli di utilitaria e comunque di segmento A e B. Su tale comparto l'azienda ha una lunga esperienza ed è indubbio che modelli come Panda, Punto e Nuova 500 sono sicuramente auto di riferimento nel loro segmento di mercato.
Perché allora non proporre una vendita di questo core business alla più potente casa automibilistica europea, cioè alla Volkswagen? Riuscendo ad intercettare un prezzo equo e salvaguardando, con nuovi investimenti, gli attuali posti di lavoro, si potrebbero risolvere i problemi che attanagliano l'intero gruppo.
Ci sono, ovviamente, alcune considerazione da fare. La prima sarebbe estendere il modello di govenance della casa tedesca anche agli stabilimenti italiani. Il sindacato dovrebbe perciò adeguarsi al modello di quello tedesco altrimenti si perderebbero i notevoli vantaggi che tale modello sta esprimendo a livello di produzione e competitività della casa tedesca. I lavoratori e i sindacati assieme dovrebbero accettare in toto il sistema tedesco di partecipazione e responsabilità nella produzione delle auto, adeguandosi alle produzioni che la Volkswagen esprime con i marchi acquisiti in altri paesi come, ad esempio, la Seat spagnola e la Skoda della repubblica Ceca. Si manterrebbe il marchio Fiat, applicando il modello tedesco di produzione e commercializzazione. Gli attuali azionisti uscirebbero di scena trasferendosi in America e investendo il denaro percepito dalla vendita negli stabilimenti americani del marchio Chrysler e concentrando perciò il loro core business solamente in un continente ed in segmenti di mercato diversi.
Utopia? Può darsi. Questo lungo braccio di ferro, che dura da troppo tempo tra lavoratori e governance, ha prodotto solo divergenze ed incomprensioni. L'amminsitratore delegato ha dimostrato di avere una visione anglo americana del capitalismo (senza giudizio nel merito), mentre il sindacato si è dimostrato forse inadeguato per le nuove sfide dei mercati mondiali rimanendo fermo su schemi di partecipazione al lavoro ormai obsoleti e superati. Probabilmente sono in grossolano errore, ma sono convinto che se si facesse un referendum tra tutti i lavoratori del gruppo Fiat chiedendo se volessero aderire al gruppo Volkswagen, accettandone le regole di produzione ed il rischio annesso, la grande maggioranza sarebbe d'accordo di poter lavorare per il gruppo tedesco. Questo rimane, ovviamente, solo un esercizio teorico di economia che è difficile, se non impossibile, da realizzare. Troppo diverso il modo di concepire capitale e lavoro nel nostro paese che impedisce, di fatto, di riscrivere un nuovo patto sociale nel quale ognuno si prenda le proprie responsabilità ed i propri eventuali meriti o sconfitte.

sabato 18 maggio 2013

Teorema Musicale

Siamo nella seconda metà degli anni '70. Un gruppo di amici si trova seduto comodamente al solito bar, punto di ritrovo per giocate a biliardo, qualche scala quaranta, immancabile sigaretta in bocca (ora ripudiate da tutti), interminabili discussioni. Il tema della serata è: la musica pop imperante in questo (di allora) momento. Parla Enzo, il musicofilo batterista: pontifica. Preparato, ma banale. La discussione si fa  però più accesa tra il sottoscritto e Roberto. Motivo del contendere: contrapposizione tra tecnica virtuosistica e composizione. Il sottoscritto, paladino del virtuosismo,  erge a  proprio simbolo un gruppo pop versione "progressive" molto famoso e di cui ha esperienza diretta essendo andato a sentire dal vivo un loro concerto. Si tratta degli Emerson, Lake & Palmer.  Roberto, rigorosamente fermo sulla composizione, contrappone un altro famosissimo e collaudato team di musica pop psichedelica: i Pink Floyd. La mia tesi, che considero vincente, è che un musicista deve essere preparato, padrone del suo strumento, possibilmente un virtuoso, tecnicamente forte. Deve saper leggere uno spartito a prima vista, deve saper suonare ogni tipo di musica in modo decente, deve saper comporre e, soprattutto, deve saper interpretare e rimodulare la musica altrui. Keith Emerson si presta ovviamente a tutte queste caratteristiche. Ha reinterpretato brani di musica classica in modo così convincente che devo a lui il mio avvicinamento e la mia (modesta) conoscenza della musica classica e sinfonica, ma ha anche prodotto, insieme al suo gruppo, ottima musica pop ("Tarkus" docet). Il tastierista ha temperamento e possiede inoltre doti eclettiche non indifferenti passando, con brani suonati al pianoforte, da un rock scatenato ad un ragtime del tipo "Ranch-Saloon" e da una riedizione personalizzata di una piece classica ad un pezzo di dixie jazz. Utilizza inoltre il suo potente Hammond C3 come una banda che suona a fanfara, passando dalla "Promenade" dei "Quadri di Esposizione" di Mussorgsky, ad una scatenatissama ballata da rodeo come "Hoedown" di Aaron Copland, per finire con una originalissiama interpretazione del "Bolero" di Ravel. Esilarante ed indemoniato. Il mio modello di musicista.
Roberto è più pacato. Non contrappone il virtuosismo strumentale e nemmeno la reinterpretazione di brani famosi. Si concentra invece ossessivamente sulla novità. Si intestardisce puntigliosamente su "una nuova e originale composizione", mai tentata prima di ora. Applaude alla sperimentazione sintetica. Si appella alle diafane visioni dell'inconscio ed agli stati emozionali provocati da voci e melodie che sfiorano l'eccelso mentre , a mio avviso,  rievocano stati di paranoia, magari prodotti da allucinogeni come il famigerato LSD. Non gradisco l'uso indiscrimitato dei sintetizzatori, degli effetti speciali che coprono, secondo il mio punto di vista, uno scarso supporto tecnico-strumentale. Manca quindi il virtuosismo tecnico e viene riprodotta una musica che tutti possono comporre senza avere prima effettuato una preparazione specialistica e strumentale adeguata. Il mio atto di accusa è la superficialità. Il suo atto di accusa è la banalità e l'affermazione che musicalmente la mia posizione avalla un "niente di nuovo sotto il sole".
Sono passati tanti anni. Troppi per non rimpiangere quei tempi in cui la musica rappresentava per noi un motivo di coagulo, di discussione ininterrotta, di partecipazione a diversi concerti spendendo i pochi soldi a disposizione in biglietti al botteghino e per l'acquisto dei preziosissimi long playing. Appena uno del gruppo di amici ne acquistava uno, l'evento diveniva motivo per ritrovarsi a casa sua ed ognuno di noi si trasformava in critico musicale aprendo dibattiti senza fine. Oggi poi, con i diabolici MP3, IPOD e compagnia varia, si ha la possibilità di ascoltare un'infinità di musica in qualsiasi luogo e in qualunque momento: in perfetta e spesso malinconica solitudine. Si possiede la fortuna, data dalla  tecnologia, di poter comparare immediatamente un brano ad un altro, un autore ad un altro e di renderti subito conto, data anche l'età non pù giovane e l'esperienza e la capacità critica accumulata nel tempo, di capire effettivamente la valenza e l'imprinting che ogni autore ha lasciato con le sue opere lungo il cammino della storia della musica pop.
Non ho cambiato idea sul bravo e preparato Emerson, ho cambiato invece radicalmente opinione sui Pink Floyd. Devo ammettere che il buon Roberto aveva perfettamente ragione. Se da un lato la tecnica virtuosa di Keith mi ha permesso un ampio approccio alla musica in senso lato, oggi, confesso, Waters & company hanno lasciato un'indelebile solco tracciato nella storia della musica pop. Riascoltando i brani, ormai mitici, non si può esimersi dal catalogare opere come Atom Heart Mother, Meddle, The Dark Side of the Moon, Wish You Were Here, The Wall, The Division Bell come veri capolavori di composizione innovativa. In tutta la storia della musica, dall'antica, alla classica, alla moderna, alla contemporanea e nella più ampia accezione dei termini che la definiscono, esiste sempre, per ogni genere ed epoca, qualche autore che delimita uno spartiacque e l'inizio di una nuova epoca scavando un solco nuovo per un nuovo genere. Si possono annoverare tra i pionieri e i generatori di nuovi prototipi musicali nei quali si formano dei discepoli che spesso superano i maestri. Ma proprio questo non è il caso dei Floyd. Loro sono stati gli archetipi fondatori, sicuramente con altri gruppi,  di un genere nuovo del quale però ne hanno dettato i canoni con brani il cui valore simbolico e semantico non è mai stato eguagliato da altri compositori del medesimo genere. Ma la magia della loro musica, oltre ovviamente all'originalità, rimane sicuramente lo spessore emotivo e il messaggio subliminale dell'inconscio che si astrae dal genere stesso e lo supera creando una nuova e non ben configurata classe musicale. Si potrebbe azzardare l'unicità delle composizione in un tracciato compositivo di valore universale. Tale definizione può essere avallata dall'utilizzo trasversale della loro musica da parte del cinema, della pubblicità, della televisione e negli ambiti più svariati come lo sport, la cultura, l'informazione e l'arte.
Devo dare l'onore a Roberto di avere percepito da subito, in quegli anni lontani, il valore dell'originalità compositiva, la compulsione emotiva delle sensazioni create, la capacità di destare, ancor più oggi, un profondo ed ignoto sentire che genera turbamento e angoscia da un lato, ma anche serena pacatezza ed ancestrale sublimazione dall'altro. E tale prodotto rimane originale in ogni tempo.
Con tutto ciò, caro Robby, devo sinceramente ammettere che la nostra disputa, a distanza di anni,  l'hai sicuramente vinta tu.

venerdì 17 maggio 2013

giovedì 16 maggio 2013

Il Tempo

Abbiamo sempre la sensazione che ci manchi oppure, a volte, sembra non trascorrere mai. Eppure la quarta dimensione non può essere disgiunta dal suo alter ego: lo spazio. Fin troppo facile appellarsi alla teoria della relatività, ma se ci pensiamo bene non esiste un tempo senza un luogo. E quel luogo non è mai fermo, ma si muove in relazione a qualcos'altro. Ogni viaggiatore si porta appresso il proprio orologio spazio-temporale che segna l'ora di quel luogo a quella data velocità e in quel momento tentiamo (con approssimazione)  di misurarlo. L'ossessione dell'uomo nel determinarlo in dettaglio lo ha indotto a costruire orologi sempre più precisi come gli orologi atomici al cesio. Ma nel moto dell'universo così immenso, il tempo dell'uomo è significativo? Quando si parla di "anno luce" di distanza usiamo, forse senza accorgercene, proprio una unità di misura spazio-temporale in cui il tempo della velocità della luce ne determina astronomicamente anche lo spazio percorso. Questa in sintesi, e forse anche malamente descritta, la teoria fisica del tempo convalidata da esperimenti empirici che ne hanno confermato la fondatezza, almeno fino alla prossima teoria che ne delinei ancor meglio i dettagli, se enunciabile. C'è però una domanda che probabilmente non troverà mai risposta: esiste un luogo senza tempo? In modo speculare: esiste il tempo senza la materia? Ecco di nuovo la metafisica e la filosofia che prendono corpo nell'universo spazio della nostra mente e che fa affiorare, a ragione, un sorriso sulle labbra dei razionalisti agnostici. Per non complicarci la vita dobbiamo accettare indiscutibilmente che tutto l'universo si muove e che, sembra ormai confermato, tutte le galassie più lontane dal nostro "gruppo locale" si stanno allontanando da noi, mentre le vicine si fonderanno assieme e inesorabilmente le più piccole saranno inghiottite dalle più grandi. Ma tutta questa materia che si muove, dove stà andando? Quale meta sarà raggiunta? Sarà raggiunto un luogo di arrivo o, forse,  una meta non esiste?
Facendo una breve escursione nella teologia cristiana, Sant'Agostino (sempre lui!), aveva definito che l'unico essere senza tempo era Dio. Meglio, il suo modo verbale poteva essere declinato solo da un unico tempo: il presente. Un presente continuo nel quale passato e futuro, secondo la divinità, non hanno semanticamente valore. Perchè? Perchè Dio stesso ha creato con l'universo il tempo di cui, vedi sopra, è parte integrante e non può essere disgiunta dal suo moto. Allora, Dio è immobile? Non è dato saperlo. L'onnipotenza e l'onnipresenza (che non è solo "presenza ovunque" ma anche "presenza continua") sono quindi inammissibili separatamente, proprio come lo spazio-tempo teorizzato da noi uomini? Forse si confonde scienza e metafisica, ma astrattamente (pessima definizione) l'uomo potrebbe annullare il tempo? Il pensiero, così rapido e plurivalente, potrebbe essere privo di tempo? Si potrebbe "pensare" l'immobilismo totale e quindi anche l'azzeramento del tempo? Biologicamente questa è una fesseria. Il pensiero è parte di un nostro ben definito organismo che si chiama cervello e che si trova entro un corpo in un luogo in movimento e che con esso si muove. Il prodotto, seppur metafisicamente "pensante", non può essere ovviamente separato dalla materia che lo produce, perciò con esso ne segue il destino ed il suo tempo.
Ritornando però alla metafisica teologica e ipotizzando che Dio fosse tutto l'universo contenuto all'interno di un infinito limitato (il vuoto dello spazio in cui si muove la materia) e se questo "infinito limitato" fosse rappresentato da un'orizzonte fisso ("l'orizzonte degli eventi" dei buchi neri?), si potrebbe forse avere un'entità divina priva di tempo. Ma se io con la mia mente ho elaborato questo pensiero, sono forse riuscito ad ipotizzare, almeno in quell'istante, l'annullamento del tempo?  Siamo quindi un po', superbamente, come Dio?
Nulla di ciò potrà mai essere provato. Non essendo perciò verificabile, non rimane che tenerci le nostre ipotesi e "pensare" che potrebbe esistere un non luogo, privo di moto, in assenza di tempo.
Scusate, ma non è poco.

lunedì 6 maggio 2013

Dell'Amicizia

"Per farlo bene bisogna farlo assieme". Adagio della mia vecchia nonna. E' il manifesto dell'amicizia. Il senso del nome di questo Blog, Lucrezio Epicuro, riassume la filosofia di fondo che io ho della vita. Il nostro modo di vivere in relazione con gli altri, in una struttura sociale organizzata, ci porta ad essere inclini ad una vita collettiva. Dal nucleo primordiale della famiglia, alle relazioni sociali affettive (amicizia), alle relazioni normali con soggetti diversi della componente sociale. La famiglia, è risaputo, non la si sceglie, gli amici invece sì. Questa differenza, tautologica e banale, ha però un'implicazione significativa nella vita di ognuno di noi. Le affinità elettive, nel bene o nel male, sono il prodotto indubbio di una serie di fattori come l'educazione, la tradizione, lo stato sociale, l'ambiente dove ognuno di noi cresce e poi vive. Dato però l'incipit del legame, il percorso dell'amicizia segue un suo sentiero autonomo. Spesso accade che proprio l'amicizia sia l'oggetto di un riscatto sociale come, viceversa, anche di una perdizione totale. Resta comunque il fatto che anche l'amicizia presta il fianco a molte critiche sul vero movente della sua natura. In pratica: esiste un'amicizia pura? Cioè non dettata da interessi materiali o da scopi comuni? L'analisi susseguente e le varie interpretazioni ci portrebbero troppo lontano, nei meandri profondi della filosofia e della psicanalisi con il rischio di uscirne con un nulla di fatto. Ho avuto occasione comunque di provare nella mia vita che le amicizie più consolidate (e forse anche le più profonde) sono quelle che si formano nell'infanzia e nella giovinezza. L'ambiente che ti circonda ti plasma e ti permea in una sorta di amalgama psicologico e sociale che ti porta a cercare e a trovare l'amicizia in modo naturale e, a volte ma non sempre,  senza mediazioni. La radicalità e la spontaneità di questi legami restano per tutta la vita. Ho avuto prova in diverse occasioni con persone a me vicine e più anziane di vedere le reazioni che provavano nel ritrovare gli amici di un tempo con cui avevano trascorso l'infanzia e la giovinezza. Il tempo sembrava fosse annullato e tra loro si raccontavano di episodi di vita vissuti assieme che sembravano accaduti il giorno prima quando invece erano passati moltissimi anni.
Mi sono sempre chiesto quale forza possedesse tale capacità di azzerare il tempo e di rinvigorire momenti che sembravano ormai perduti in un oblio di un passato ormai dimenticato. Finché un bel giorno mi accorsi anch'io quale incommensurabile valore avesse quella forma di amicizia. Difficile è descrivere una cosa che hai a portata di mano tutti i giorni e non sai di averla. Una relazione di amicizia consolidata da tantissimi anni che ha attraversato un'intera generazione di persone. Considera un alter ego opposto alla tua personalità con il quale ti confrontavi e spesso ti scontravi quasi ad ogni piè sospinto, quotidianamente. Con lavori completamente diversi, compagne di vita con caratteri  che nulla avevano in comune. Eppure con la necessità quasi genetica di trovarsi, di raccontarsi, di praticare sport assieme e magari di prendersi malignamente in giro calcando sui reciproci difetti ed annullando le reciproche virtù. Una simbiosi ed integrazione empatica, pur nella totale diversità, così profonda da far esclamare, nei momenti di litigio verbale più intensi o di alleata complicità, ad un altro amico della cerchia: "mi sembrate due animali selvatici, assomigliate a Cip e Ciop". Una corretta sintesi di un acuto osservatore. A questo terzo amico devo la giusta definizione "Dell'Amicizia" che mi legava a Ciop. Sì, perché così eravamo stati identificati:  io Cip, il logico razionalista, il teorico spesso inconcludente, maniaco dell'ordine, un po' cinico, iroso, sarcastico, logorroico e spesso supponente mentre lui Ciop, il disordinato e farfuglione, con una grande capacità intuitiva innata, un disarmante senso dell'ironia, un'intelligenza istintiva, una generosità ancestrale, un cuore gigantesco. Peccato che di tutto ciò che eravamo uno per l'altro io me ne sia veramente reso conto solo dopo una gelida telefonata: Ciop è morto. Improvvisamente e, come avrebbe detto lui, senza dirmi niente: nemmeno un minimo di preavviso. In un umido mattino autunnale, come una foglia ingiallita lasciata cadere dal suo albero, Ciop se ne è andato lasciandomi solo.
Caro San Pietro, se non trovi la chiave del paradiso non ti preoccupare, te l'ha fregata Ciop. Per lui il cibo è una religione. Se ne starà sicuramente appollaiato sull'albero del bene e del male e si ingozzerà beatamente sgrannocchiando tutti i succulenti e maturi pomi del bene, mentre le mele marce del male, credimi, me le lascierà purgare giustamente tutte a me. Ciao Ciop, ora più di prima so di volerti ancor più bene.

mercoledì 1 maggio 2013

Premio e Castigo

Le religioni del mondo, nelle loro varie teologie, definiscono cosa sia il male e cosa sia il bene. Descrivono, a volte in modo non sempre esaustivo, il premio che si riceverà o il castigo che sarà inflitto per i comportamenti tenuti nella vita terrena e previsti dalle leggi che regolano l'esistenza dopo la morte. La Divina Commedia di Dante, nell'ambito della religione cattolico cristiana, ipotizzava poeticamente l'assegnazione di tali premi o castighi in luoghi ben definiti dalla teologia di riferimento. Ovviamente si trattava di assunzione di responsabilità o di comportamenti meritevoli derivanti da giudizi soggettivi impliciti nel contesto storico istituzionale dell'epoca contemporanea e a quella precedente al sommo poeta. I premi o i castighi erano comunque elargiti o comminati ad un'entità corporea ben definita che apparteneva al trapassato anche in vita. Si é applicato in toto ciò che il bene o il male rappresentavano nella vita terrena e cioè la gioia ed il dolore come esperienze vissute tangibilmente da ogni singolo soggetto umano. Al di la quindi di un'analisi relativa alla giustizia divina delle azioni terrene degli uomini, il poema poneva, per il suo tempo, un giudizio etico e morale sui comportamenti delle personalità storiche passate e contemporanee al poeta. In linea teorica potremmo applicare lo stesso metodo di giudizio in relazione alle personalità del nostro tempo ma anche, retrospettivamente, a tutte le personalità importanti succedutesi nella storia dell'umanità. Proviamo però a teorizzare una situazione assolutamente agnostica di una possibile entità per ognuno di noi che possa continuare dopo la  morte del nostro corpo biologico. Una entità "non definibile" teologicamente, ma ipotizzabile dal punto di vista puramente intellettivo e metafisico, quindi non falsificabile. In questo contesto, che cosa potrebbe rappresentare un "premio" od un "castigo" per questa entità non riconducibile alle teologie religiose odierne dell'uomo e prive delle esperienze legate alla fisicità del corpo biologico?  Sì, insomma, se ognuno di noi si astraesse completamente dalle conoscenze religiose come non fossero mai state enunciate e perciò conosciute, che cosa potrebbe immaginare di aspirare o di temere in un contesto probabilistico per una propinata entità extra corporea in una vita successiva alla morte biologica? Escludiamo ovviamente l'ateismo puramente materialistico che asserisce che la morte biologica è la fine di tutto, ma ammettiamo che una proiezione della nostra esistenza fisica possa trovare, per estensione metafisica, una continuità soggettiva anche in uno spazio-tempo indefinito ed a noi sconosciuto. Dunque? Quale stato possiamo immaginare di benessere o di sofferenza in una simile situazione? Due cose importanti da chiarire prima di continuare in questo esperimento filosofico. La prima: non viene dato un codice di comportamento diverso rispetto a quello terreno nel quale l'uomo, come soggetto appartenete ad un gruppo sociale evoluto, deve rispettare alcune regole disposte dalla convivenza con gli altri soggetti in un contesto etico-morale dettato dall'ethos espresso dal medesimo gruppo. La seconda: il premio od il castigo non possono essere riferiti alle nostre condizioni umane di esperienza biologica (castigo o benessere corporali). Perciò si devono immaginare solo condizioni "psicologiche" ed "emozionali" derivanti dalla nostra mediazione intellettiva come astrazione totale dalla nostra  fisica esistenza.
Ebbene, tale ipotesi filosofica fu da me  proposta ad un gruppo di amici in una calda estate degli anni '70, in un periodo di idealismo ideologico ed in un contesto studentesco di strisciante retorica anti religiosa (in senso lato). Dopo lunghe ed interminabili discussioni ed ammettendo evidenti limiti di immaginazione metafisica, é apparsa decisamente vincente l'idea, maieuticamente estratta reciprocamente da ognuno di noi, che il supremo premio in un siffatto ipotetico contesto fosse dato dalla "assoluta libertà di poter essere in qualsiasi luogo voluto ed immaginato". L'inquinamento delle idee elaborate dalla nostra esperienza di corpo fisico biologico fu inevitabile, ma una buona dose di immaginazione fu propinata ed elaborata da ogni appartenete al gruppo di discussione. Ed il castigo? Ovvio: l'assenza di tale illimitato grado di libertà. La negazione di esaudire la volontà di poter viaggiare in quei luoghi immaginifici e meravigliosi da noi pensati. L'angoscia dell'impossibilità. L'impotenza metafisica della mobilità assoluta. Ma approfondendo ancora di più il nostro dialogo arrivammo alla conclusione che ciò che veramente avrebbe portato tale grado illimitato di liberalità motoria sarebbe stata la possibilità di avere una "conoscenza assoluta del tutto" in luoghi non diversamente definibili e in uno spazio illimitato senza tempo. Si presentò quindi il problema di capire se tale "conoscenza assoluta", non ben definita e forse nemmeno definibile dallo scibile umano, fosse pre-esistente al nostro stato o fossimo noi stessi creatori, per mezzo di questo massimo grado di libertà, di una qualche forma di sapienza. Ecco il nocciolo: la Sapienza.  La "Creazione", si dedusse in comunione, é la fonte, la costruzione, l'idea prima, l'assioma non falsificabile del tutto. Cioè il massimo premio era considerata la potenza della "Creazione" di stati e luoghi in cui ognuno di noi esprimeva il massimo delle proprie aspirazioni fantastiche senza lesinare nei limiti in cui la condizione umana ci aveva ingabbiati finora. Ma in quel momento di pensiero già noi fisicamente eravamo e, ad oggi purtroppo non tutti, ancora siamo. Il tempo, quindi, non poteva induttivamente essere da noi annullato. La discussione divenne quindi, per deduzione logistica, subito depressa dalla constatazione che noi già "eravamo", già "esistevamo" in spazi e tempi deducibili dalla nostra empirica esperienza di vissuto biologico e che quindi potevamo essere esattamente il prodotto di questo illimitato grado di libertà creativo posseduto già da qualche altra entità a noi sconosciuta. Quindi?
Nulla di nuovo sul fronte metafisico: ecco di nuovo Dio. E purtroppo Dio non siamo noi (il castigo), ma potremo aspirare alla sua "Conoscenza" (il premio).