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lunedì 20 maggio 2013

Il Mito dell'Auto Italiana

                            File:Logo della Volkswagen.svg     
Immagine 14 Automobili


Quando presi la patente io, un po' di anni fa, il marchio dell'automobile più venduto in Italia era Fiat. La casa automobilistica sembrava l'emblema della nostra industria, non solo meccanica, ma l'"Impresa" per antonomasia. Le auto di grossa cilindrata erano rare e, già a quei tempi, non tutte italiane. Per le auto considerate di lusso tra i marchi italiani, non ancora accorpati nel gruppo Fiat, si distingueva il marchio Lancia. Oggi il gruppo Fiat rimane in testa tra le auto più vendute in Italia con una percentuale totale di vendita, assommando i vari marchi, che si attesta a quasi il 65% per l'anno 2012. Il gruppo Volkswagen, storico antagonista, si attesta intorno al 14%. Vista così la situazione non sembrerebbe poi male. Ma è sui grandi numeri che il marchio Fiat praticamene sparisce. Mi riferisco al mercato europeo nel quale tra i primi 10 posti nessun marchio del gruppo Fiat appare in classifica, mentre il gruppo tedesco è padrone assoluto. Se in Italia la Fiat può vantarsi ancora di primeggiare, in Europa, rispetto alle altre case automobilistiche, il gruppo arranca visibilmente. E' un momento difficile per tutti, vista la profonda e prolungata crisi economica, e non bisogna scordarsi che a metà del decennio scorso la Fiat ha rischiato di fallire o, nella migliore delle ipotesi, di essere assorbita da qualche altro gruppo automobilistico. Stranamente si è salvata, al contrario di altre aziende, grazie ad una operazione finanziaria di Put (diritto a vendere) che la Fiat si era riservata negli accordi che aveva fatto a suo tempo con la General Motors. Successivamente l'avvento di Luca di Montezemolo, che ha chiamato come Amministratore Delegato Marchionne, ha risollevato le sorti, ma oggi lo scenario è completamente cambiato. Marchionne ha acquistato la Chrysler e il mercato di rifermento è diventato quello statunitense. Si è poi innescato un meccanismo di sfiducia tra la governance e la forza lavoro con scontri molto duri soprattutto tra una parte (minoritaria) del sindacato e l'amministratore delegato. Insomma, nonostante gli annunci di rilancio, la ristrutturazione aziendale e il referendum tra i lavoratori per accettare le richieste dell'azionariato, la Fiat permane in uno stato di crisi. Così, sembra, amministratore delegato ed azionisti vorrebbero portare la sede in America a Detroit per seguire  più da vicino l'azienda Chrysler e abbandonare al suo definitivo declino gli stabilimenti Fiat Italiani.
Senza entrare nel merito delle responsabilità e delle ragioni che sicuramente esistono da entrambe le parti, azionisti rappresentati dall'amministratore delegato da una parte e forza lavoro rappresentata dai sindacati dal'altra, si potrebbe fare una proposta molto provocatoria, ma che ha, forse, qualche fondamento.
La forza della Fiat è sicuramente rappresentata dai modelli di utilitaria e comunque di segmento A e B. Su tale comparto l'azienda ha una lunga esperienza ed è indubbio che modelli come Panda, Punto e Nuova 500 sono sicuramente auto di riferimento nel loro segmento di mercato.
Perché allora non proporre una vendita di questo core business alla più potente casa automibilistica europea, cioè alla Volkswagen? Riuscendo ad intercettare un prezzo equo e salvaguardando, con nuovi investimenti, gli attuali posti di lavoro, si potrebbero risolvere i problemi che attanagliano l'intero gruppo.
Ci sono, ovviamente, alcune considerazione da fare. La prima sarebbe estendere il modello di govenance della casa tedesca anche agli stabilimenti italiani. Il sindacato dovrebbe perciò adeguarsi al modello di quello tedesco altrimenti si perderebbero i notevoli vantaggi che tale modello sta esprimendo a livello di produzione e competitività della casa tedesca. I lavoratori e i sindacati assieme dovrebbero accettare in toto il sistema tedesco di partecipazione e responsabilità nella produzione delle auto, adeguandosi alle produzioni che la Volkswagen esprime con i marchi acquisiti in altri paesi come, ad esempio, la Seat spagnola e la Skoda della repubblica Ceca. Si manterrebbe il marchio Fiat, applicando il modello tedesco di produzione e commercializzazione. Gli attuali azionisti uscirebbero di scena trasferendosi in America e investendo il denaro percepito dalla vendita negli stabilimenti americani del marchio Chrysler e concentrando perciò il loro core business solamente in un continente ed in segmenti di mercato diversi.
Utopia? Può darsi. Questo lungo braccio di ferro, che dura da troppo tempo tra lavoratori e governance, ha prodotto solo divergenze ed incomprensioni. L'amminsitratore delegato ha dimostrato di avere una visione anglo americana del capitalismo (senza giudizio nel merito), mentre il sindacato si è dimostrato forse inadeguato per le nuove sfide dei mercati mondiali rimanendo fermo su schemi di partecipazione al lavoro ormai obsoleti e superati. Probabilmente sono in grossolano errore, ma sono convinto che se si facesse un referendum tra tutti i lavoratori del gruppo Fiat chiedendo se volessero aderire al gruppo Volkswagen, accettandone le regole di produzione ed il rischio annesso, la grande maggioranza sarebbe d'accordo di poter lavorare per il gruppo tedesco. Questo rimane, ovviamente, solo un esercizio teorico di economia che è difficile, se non impossibile, da realizzare. Troppo diverso il modo di concepire capitale e lavoro nel nostro paese che impedisce, di fatto, di riscrivere un nuovo patto sociale nel quale ognuno si prenda le proprie responsabilità ed i propri eventuali meriti o sconfitte.

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