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mercoledì 29 ottobre 2014

Erosgonia


Immagine<a href="http://foto.libero.it/porzia9/Foto-profilo/bacio-di-amorini"

Erosgonia ovvero nascita dell'amore. Sì, ma di che amore stiamo parlando? Nella nostra lingua si usa questo vocabolo in modo generico e che ha molti significati e diverse sfumature. In altre lingue si utilizzano più vocaboli che identificano un ben preciso sentimento relativo al concetto di amore. Il greco antico utilizza molteplici definizioni come, ad esempio, agape, eros, filia, filarcia, kenodoxia, anterao e altri. Quando invece parliamo o scriviamo   in italiano dobbiamo sempre specificare il contesto in cui questo vocabolo viene utilizzato. Esistono evidentemente molti rapporti sentimentali che sono descritti da esso e spesso in modo improprio.

Se si volesse stilare una gerarchia semantica con valori discendenti si dovrebbe attribuire, ovviamente per chi ha una fede religiosa, il primato al rapporto con la divinità. Ma utilizzare la parola "amore" per esprimere un sentimento religioso nei confronti del divino é riduttivo e, forse, inopportuno. La divinità non é sufficiente amarla: si adora. L'adorazione é un sentimento di legame assoluto, perfetto, trascendete e insuperabile. Esso é posto al vertice dei rapporti sentimentali e, per chi crede, non esiste dedizione maggiore. Perciò esso non si addice alle relazioni emotive tra esseri umani. Nei rapporti parentali come, ad esempio, tra genitori e figli, nonni e nipoti, fratelli e sorelle, riconoscere il sentimento del legame di sangue con l'affermazione "ti amo" é invece inopportuno perché può provocare disorientamento o, peggio, dar adito ad equivoci. Nel legame di sangue si esprime quindi i propri sentimenti affettivi con l'affermazione "ti voglio bene", con accezione più ampia ed equilibrata rispetto all'amore in senso stretto. La parola "ti amo" è invece universalmente impiegata per esternare il coinvolgimento e l'adesione ad un rapporto sentimentale tra due persone che comprende anche, tra altre importanti motivazioni, la sfera sessuale. Infatti, per mezzo dell'atto sessuale, il genere umano procede al suo perpetuarsi nel tempo esprimendo così la sua aspirazione terrena di eternità. Questo nell'intento biologico, ma il genere umano é continuamente soggetto ad evoluzioni e mutazioni sia in campo sociale sia in campo intellettuale. L'ambito sessuale è divenuto quindi non più unicamente la realizzazione di un progetto evolutivo, ma si é elevato (o ridotto?) a elemento di affermazione reciproca nel coinvolgimento sentimentale. Fin qui nulla di nuovo, Freud docet. Non considerando  gli eccessi dei comportamenti umani che portano a deviazioni o a depravazioni, ma analizzando il mero sentimento di amore reciproco tra due persone che  perseguono un progetto di vita comune, ci si può chiedere cosa veramente sia l'amore e quali implicazioni profonde porti in esso. Ci si può anche chiedere, viceversa, perché sia così frequentemente effimero e superficiale. Fa parte, forse, delle suddette evoluzioni e mutazioni intellettuali e sociali? Facciamo un esempio? Tempo fa una mia conoscente mi confidò che, oltre al compagno con cui viveva da parecchi anni, frequentava un altro uomo con cui aveva rapporti intimi. Il fatto, mi spiegava la mia interlocutrice, era che lei si sentiva veramente innamorata di tutt'e due le persone. Provava ancora amore ed attrazione per il suo compagno storico, ma provava anche lo stesso identico sentimento verso il nuovo compagno. Sono convinto che la persona in questione fosse in buona fede e nessuno si può permettere di giudicare e condannare i comportamenti dettati dal sentimento e dalle emozioni di un'altra persona senza cadere nel pregiudizio o nel moralismo. Detto ciò, si può amare contemporaneamente due persone con pari intensità e dedizione? Io aggiungo, malignamente, si possono amare contemporaneamente in senso biblico più persone? Il disappunto etico é incentrato sul profilo temporale? Cioè, é assolto chi nella sua vita sentimentale ama o ha amato più persone in tempi cronologicamente diversi e uno alla volta o chi ama contemporaneamente due o più persone allo stesso tempo ma in modo permanente? Si può affermare che il secondo caso é statisticamente irrilevante mentre avere avuto più compagni o compagne in tempi diversi durante la propria vita sentimentale é, nella casistica, molto più rilevante.

E allora? Forse la risposta a questi quesiti non esiste. Involontariamente e non certo nel senso universalmente accettato una risposta é implicita nell'affermazione del religiosissimo Blaise Pascal che appositamente modifico e che qui di seguito riporto:

                        "L'amore conosce ragioni che la ragione non conosce".


lunedì 13 ottobre 2014

L'Insostenibile Percezione Della Diversità

Questa racconto è tratto da un episodio realmente accaduto.

Immagine tratta da: www.meditare.net  
 In un passato non molto remoto spesso si veniva tacciati di provincialismo. Oggi molte persone si dichiarano apertamente contrarie alla globalizzazione. E' evidente che il  movimento odierno "no-global" nasce da presupposti puramente economici ed a protestare sono spesso movimenti multietnici, politicamente corretti e globalizzati. Sono le contraddizioni umane, spesso non percepite, che provocano ossimori semantici che decadono in cortocircuiti ideologici di difficile definizione. Se l'economia deve essere preservata nelle diversità locali, ciò non accade nella biodiversità in quanto il quasi azzeramento dei tempi di percorrenza degli spazi ha di fatto reso globale la società umana. I popoli del quarto(!) mondo, loro sì, purtroppo, sono oggetto di una non globalizzazione intransitiva di merci e denaro di cui le colpe sono sempre evidentemente riposte nei paesi maledettamente globalizzati e sfruttatori, nonché affollatamente transitivi. Non addentrandoci oltre nelle incongruenze economiche globali, di seguito riporto un racconto tratto da un episodio realmente accaduto nel nostro paese in un'epoca di gradevole benessere deglobalizzato.

Troppi anni fa ebbi un'occasione che forse molti giovani di oggi, soprattutto i meno abbienti, vorrebbero li capitasse almeno una volta nella vita. L'azienda per cui lavoravo da un discreto numero di anni mi propose di trascorrere un congruo numero di mesi in un percorso formativo di stage presso una società collegata la cui sede era situata nella città di Milano. Avevo vissuto fino ad allora in una piccola città di provincia e lavoravo in un media città capoluogo della stessa provincia. Avevo fatto alcuni viaggi a titolo personale e avevo visitato, solo per pochi giorni, alcuni paesi stranieri confinanti. Il mio curriculum di esperienza viaggiante era quindi molto ridotto. Partivo quindi con la curiosità di vedere una grande città nel vissuto quotidiano, nel movimento della gente, nell'incontro con persone di diversa estrazione culturale e sociale. Dopo qualche settimana di ambientamento, ebbi l'opportunità di stringere amicizia con alcuni colleghi della società partecipata preposti al mio indottrinamento aziendale. La cosa molto curiosa era che quasi tutti erano di origini esterne non solo alla città di Milano, ma anche alla regione Lombardia. Potrei affermare che in quella società si era avverata, ante litteram, una mini-globalizzazione a livello nazionale. Ogni giorno qualcuno di loro mi invitava cortesemente ad uscire assieme per la pausa pranzo. A dire il vero, anche a causa della pausa che di solito era molto breve, più che di pranzo si poteva parlare di uno leggero spuntino molto spesso a base di qualche tramezzino o di un'insalata o, al più, di una coppa di macedonia con yogurt o gelato. La cosa molto interessante, a parte il parco cibo, era che in quello spazio ridotto di tempo il collega che mi accompagnanva incontrava sempre altri colleghi di altre aziende con cui scambiare un po' di chiacchiere. Arrivò un fatidico giorno in cui, con il collega di turno con cui ero uscito, incontrammo un'altra coppia di colleghi di un'importante società multinazionale (una rarità per quei tempi). Mi colpì subito che uno dei due era di colore. La cosa che mi stupì ancora di più fu che il tipo "color" parlava in perfetto milanese. Subito pensai, tra me e me, che era un figlio adottivo proveniente da chissà quale oscuro e polveroso anfratto della terra. Dopo qualche scambio di convenevoli mi accaparrai subito la conversazione con il soggetto, curioso di capire chi era e da dove veniva. Fui subito accontentato. Il misterioso individuo era un indiano di Mumbai, "cittadina" di circa 15 milioni di abitanti nella costa occidentale dell'oceano indiano. Era di padre indiano, madre Urdu, nonna materna bengalese, nonno materno pakistano, nonna paterna iraniana di origini inglesi, il tutto spiegato in limpido milanese ma, volendo, me lo avrebbe potuto declamare anche in lingua hindi o in inglese o in dialetto urdu o in parsi (lingua della moglie). Le sorprese per me non erano finite. La sua "umile" estrazione lo aveva portato a trasferirsi quand'era ancora giovane, diversi anni prima,  a Milano con un incarico dirigenziale di un'importante filiale di una multinazionale di cui il padre era un rilevante azionista. Una cosa a quel punto fu certa: il "color" tra i due ero decisamente io. Figlio di operaio e madre casalinga, parlavo discretamente bene l'italiano, poco il milanese, un inesistente l'inglese, un po' di francese, ma perfettamente il patois de Venise, la mia lingua madre. La sfida però mi attizzò molto e, a causa della mia innata curiosità e loquacità, tentai di torchiare (usando come lingua uno pseudo milanese) il mio interlocutore fino all'osso per capire veramente quanto fosse "diverso" l'individuo umano che mi trovavo difronte. Ebbi subito un'idea brillantemente provinciale di chiedergli se conoscesse Madre Teresa di Calcutta. Risposta ovviamente affermativa visto che era ospite nel paese cattolico per antonomasia. Mi precisò, anzi, che era stato molte volte a Calcutta perché era la città in cui da giovane si era trasferita la nonna materna. A quel punto, vista la mia palese inferiorità censorio-linguistica, decisi di sfidarlo sul campo morale dell'etica aristotelico-cristiana e gli chiesi cosa pensasse dell'opera caritatevole di Madre Teresa. A quella domanda l'Indi mi guardò perplesso come se avessi detto una cosa fuori luogo. A questo punto vale proprio la pena di riportare la sua risposta anche se non sarà proprio negli identici termini in cui mi fu data.

"Dal punto di vista laico e sociale Madre Teresa é vista da noi indiani come una consolatrice dei moribondi. La cosa cambia se osserviamo il fenomeno dal punto di vista religioso. La religione Induista è totalmente diversa della religione cristiana. Esiste nella nostra religione la legge del Karma secondo la quale, dopo la morte biologica, lo spirito trasmigra e si rinasce a nuova vita. La natura di questa nuova vita é determinata dai comportamenti che lo spirito, nelle vite precedenti, ha tenuto secondo la legge divina. Si delinea, quindi, una scala di valori secondo la quale la reincarnazione può essere a migliore o a peggiore condizione rispetto alla precedente. Questo canone religioso porta a quello che viene descritto come regime delle caste. La declinazione classica ne prevede quattro. Poi ci sono i paria, gli oppressi, che non appartengono ad una casta e sono chiamati anche gli intoccabili. Nonostante la costiuzione Indiana del 1949 preveda la parità tra tutti i cittadini, rimane ancora profonda l'istituzione delle caste anche se, dal punto di vista sociale e politico, non sono più ritenute determinanti come nel passato. Il popolo considera l'ordine religioso di Madre Teresa di Calcutta come un'associazione benefica che aiuta e conforta i derelitti. L'induismo osservante e tradizionalista giudica l'operato di Teresa come un'intromissione alla volontà superiore divina che porta, paradossalmente, a peggiorare la situazione spirituale degli stessi paria che non scontando fino in fondo la pena inflitta per le mancanze commesse nelle vite precedenti potrebbe avere, in base alla legge del Karma, la conseguenza di un ulteriore peggioramento delle punizioni nelle reincarnazioni successive. La religione Induista é molto complessa ed articolata ed é una religione molto lontana dalle tradizioni culturali e religiose dell'occidente."

Nemmeno sul terreno etico e religioso riuscii a mettere in difficoltà il mio colorato e raffinato interlocutore.





lunedì 29 settembre 2014

Della Morte


Immagine tratta da: http://www.ilnavigatorecurioso.it/wp-content/uploads/2013/10/esperienze-di-premorte.jpg

Dalla lettera di Epicuro a Meneceo: "Abìtuati a pensare che per noi uomini la morte è nulla, perché ogni bene e ogni male consiste nella sensazione, e la morte è assenza di sensazioni. Quindi il capir bene che la morte è niente per noi rende felice la vita mortale, non perché questo aggiunga infinito tempo alla vita, ma perché toglie il desiderio dell'immortalità. Infatti non c'è nulla da temere nella vita se si è veramente convinti che non c'è niente da temere nel non vivere più. Ed è sciocco anche temere la morte perché è doloroso attenderla, anche se poi non porta dolore. La morte infatti quando sarà presente non ci darà dolore, ed è quindi sciocco lasciare che la morte ci porti dolore mentre l'attendiamo. Quindi il più temibile dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c'è la morte, quando c'è la morte non ci siamo più noi. La morte quindi è nulla, per i vivi come per i morti: perché per i vivi essa non c'è ancora, mentre per quanto riguarda i morti, sono essi stessi a non esserci."

Se si accettasse appieno le indicazioni dettate da questo passo filosofico della lettera di Epicuro al suo amico Meneceo, scomparirebbe quello che nella nostra era contemporanea viene definito come lutto per la scomparsa di una persona cara o membro rilevante della società a cui si appartiene. Il lutto è la rappresentazione del dolore provocato dalla scomparsa. La morte viene esorcizzata in un rito comune nel quale è di fondamentale importanza il credo religioso anche se privo di spiritualità. Tale rappresentazione ha assunto nel tempo caratteristiche diverse. Le funzioni religiose disposte in chiesa, riferite al rito cattolico, prevedono dei canoni ben precisi nel quale il sacerdote è l'unico esecutore preposto al rito funebre. La celebrazione del funerale religioso nel tempio divino rappresenta o, meglio, dovrebbe rappresentare il momento più alto per il superamento dell'idea di morte che corrisponde, in fase successiva, all'elaborazione del lutto in via definitiva con l'accettazione che l'anima del morto rivive in un'altra vita a noi promessa dalla stessa verità rivelata nella dottrina. Eppure, ad un'osservazione più attenta, ci si accorge che oggi difficilmente questo evento viene processato secondo i modi sopra riportati. Prende spesso il sopravvento l'emotività dell'assemblea che si esplicita in diversi momenti della funzione religiosa con interventi di vari membri della famiglia o di appartenenti della comunità del defunto. Si raccontano aneddoti, eventi, ricordi, frasi e momenti di vita della persona scomparsa, spesso con rappresentazioni fotografiche o video di momenti salienti della sua vita. Si accompagna la funzione con brani poetici, invocazioni retoriche, canti laici e musica alternativa che sono al di fuori dello spirito religioso. Avviene una spettacoralizzazione dell'evento in cui alcuni, in buona fede, cercano di suscitare il massimo dell'emotività e il raggiungimento di una parossistica commozione. Il tempo dedicato alla funzione religiosa diviene, a volte, marginale rispetto ai tempi dedicati da chi predispone un vero e proprio "spettacolo  in memoria del defunto". Ci si rammarica nel vedere che alcuni dispongono il proprio intervento più per cogliere un loro momento di gloria che cercare di raccontare un accorato e disinteressato ricordo del defunto. Alcuni partecipanti dell'assemblea si dedicano al reportage giornalistico con scatti fotografici o registrazioni di video. Il sacerdote? Dopo aver fatto anche lui il suo intervento nell'omelia, spesso si eclissa come spettatore assorto dalla rappresentazione o rimane coinvolto involontariamente nella stessa spettacolarizzazione.
Sia ben chiaro che questa non è una critica bigotta e tradizionalista alle funzioni funebri religiose del nostro tempo anche perché, per fortuna, non tutte avvengono nel modo sopra esposto e poiché, ad un attento lettore, non sarà sfuggito che il passo di apertura di questo post è tratto da una lettera di Epicuro, filosofo inviso a tutte le religioni, il quale nega il lutto della morte per il morto in quanto morto e per i vivi in quanto vivi. Il dubbio ci prende, nel vedere questi momenti di commozione, nel pensare che a qualcuno sfugga il senso degli atti e dei gesti che dovrebbero essere propri di un credo religioso di spiritualità che si identifica in un momento di raccoglimento nel quale l'ultima cosa che si dovrebbe fare è la spettacolarizzazione dell'evento stesso. Ci sono altri luoghi ed altre forme per poter estrinsecare e dar sfogo a quella lecita pretesa di non dimenticare la figura del defunto, ma quei luoghi non sono certo le chiese o i santuari in cui l'unico pensiero immemore deve essere rivolto alla divinità a cui tali luoghi sacri sono stati eretti e per cui il defunto, per chi ha fede, resterà immortale per l'eternità.

martedì 16 settembre 2014

Pensiero Nullo

 
Vignetta tratta da: http://nonciclopedia.wikia.com wiki/File:Uomo_che_esprime_il_suo_concetto_di_libert%C3%A0_di_pensiero.jpg

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